Pro e contro delle ferie.

Non devi attraversare la città ogni mattina per andare in ufficio.
Devi attraversare la città ogni mattina per andare a mare.

Non devi discutere col posteggiatore di piazza Magione.
Devi discutere col posteggiatore di piazza Valdesi.

In caso di telefonate moleste puoi sempre dire richiamami, per favore, non ho il pc davanti, sono in ferie.
In caso di inviti molesti non puoi accampare la scusa mi spiace ma non posso, domani a quell’ora lavoro, non sono ancora in ferie.

Puoi prendere un caffè al bar quando ti pare.
Nessuno prepara un decaffeinato schiumato buono come quello del capo.

Non devi svegliarti presto.
Ti svegli comunque presto perché c’è caldo, perché sei abituata, perché devi fare qualcosa di improrogabile prima di andare a mare, perché è così e basta.

Non hai scadenze da rispettare.
Tutte le scadenze ti aspettano al ritorno in ufficio e in preda al panico cerchi di portarti avanti col lavoro.

Puoi leggere tutti i libri che affollano il tuo comodino da molti mesi.
Dopo che li hai letti non puoi commentarli con le colleghe.

Non devi stare tutta la mattina davanti al pc.
Stai tutta la mattina davanti allo smartphone.

Hai moltissimo tempo libero.
Non sai come usarlo e ne sprechi una buona metà cercando di ottimizzare e i tempi e di trovare le giuste priorità.

Non hai voglia di cucinare e ti piacerebbe mangiare fuori ogni sera.
Non puoi permettertelo.

Puoi fare un giro in centro e approfittare dei saldi.
Della tua misura non c’è più nulla in giro, è stato comprato tutto da chi era già in ferie mentre tu ancora no.

Vorresti dedicarti a tutto ciò che hai trascurato durante l’anno: pulire a fondo la casa, fare sostituire il vetro rotto in balcone, fare giardinaggio, finire il corso online che hai lasciato a metà.
C’è troppo caldo per ognuna di queste attività.

Hai programmato un viaggetto semplice ma grazioso.
Proprio il giorno della partenza le tue colleghe, di ritorno dalle ferie, hanno fissato una riunione di enorme importanza strategica.

Hai aspettato per un anno le ferie e finalmente sono arrivate.
Tra pochi giorni saranno finite.

Ho finalmente finito di leggere La vita sessuale dei nostri antenati di Bianca Pitzorno. Devo ammettere che molti degli elementi che l’autrice ha lasciato in sospeso non mi erano chiari: ho dovuto consultare un gruppo su Fb e la persona che me lo aveva consigliato per riuscire a dipanare la matassa. Il romanzo merita, è vivace e divertente, un po’ soap opera, è vero, ma immagino che fosse qualcosa di voluto. Ho letto molte critiche ingenerose e sono ancora perplessa su qualcosa: penso che presto lo rileggerò.

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Tipi da social network.

Quelli che gli animali sono molto meglio delle persone, la vera bestia è l’uomo.
Quelli che a voi interessa solo degli animali, dovreste pensare anche ai bambini che soffrono.
Quelli che c’è un cagnolino ferito in via Roma, passavo di corsa e non potevo prenderlo, ne ho già ventitré a casa e mio figlio è allergico, correteeee.
Quelli che meglio in strada che in canile, una vita chiuso in gabbia.
Quelli che meglio in canile che in strada, almeno è al sicuro.
Quelli che comunque il canile è chiuso, se lo vuoi aiutare portatelo a casa o non rompere più.

Quelli che io non mangio cadaveri come fate voi.
Quelli che io odio i vegetariani, sono la mia ossessione.

Quelli che e i marò?
Quelli che e le foibe?

Quelli che ho visto la foto di un signore che chiedeva l’elemosina, poverino, ora gli mando qualcosa.
Quelli che dargli qualcosa non serve, meglio dare i soldi a qualche associazione.
Quelli che io non mi fido delle associazioni e se li do al tizio che chiede l’elemosina chissà come li usa, me li tengo e basta.

Quelli che io gli zingari li odio, al rogo!
Quelli che io i pedofili e gli stupratori li odio, al rogo!
Quelli che nella giustizia non ci credo, meglio farsela da soli, tanto stanno qualche giorno in galera e poi sono di nuovo per strada.

Quelli che non ho soldi da spendere ma ho l’iPhone.
Quelli che mi lamento delle mie tristi condizioni economiche e poi posto le mie foto di ogni angolo del mondo.

Quelli che io ho allattato mio figlio fino ai sette anni.
Quelli che la coppia mina l’autostima dei figli, noi abbiamo optato per il letto di famiglia e dormiamo in sei stretti stretti.
Quelli che io i miei figli li educherò in casa, altro che scuole, chissà che gli inculcano.
Quelli che nella scuola di mio figlio insegnano il gender e vogliono spiegare ai bambini di sei anni come ci si masturba.

Quelli che no dai il gender no, non ci credo, ma comunque se nella scuola di Gianmaria arriva un maestro frocio lo prendo a legnate.

Quelli che adesso fotografo e condivido i miei piedi, ogni piatto che ho mangiato comprese le stelline col dado, ogni tramonto o nuvola o evento atmosferico.
Quelli che io odio le foto.

Quelli che mi sono fissato su un argomento e ne parlo tutto il tempo anche a sproposito e mi arrabbio moltissimo se gli altri non mi seguono nella mia ossessione.
Quelli che non mi interessa niente che non sia il mio piccolo pezzo di mondo, q
uindi parlo solo di quello che mi riguarda in prima persona.

Quelli che sono un gran critico letterario e uso ogni gruppo in cui si parla di libri per piazzare interminabili recensioni.
Quelli che questo libro è bellissimo.
Quelli che ma perché è bellissimo, di che parla?
Quelli che è bellissimo, ecco.

Quelli che odio tutti, sono tutti degli schifosi, solo io so come far girare il mondo.
Quelli che so di non fare schifo ma lo scrivo in bacheca così una folla di persone si precipiterà a consolarmi.

È estate, c’è davvero caldo, io continuo a leggere La vita sessuale dei nostri antenati di Bianca Pitzorno che finalmente sta prendendo quota e sembra molto bello. C’è troppo caldo per mangiare, per cucinare, per parlare di cibo: insalata di pasta con pomodorini, tonno e olive e una generosa manciata di basilico è la soluzione.

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Pro e contro dell’estate.

Nessuno si lamenta per il freddo, la pioggia, il ghiaccio sulle strade, le scarpe bagnate o i guanti perduti.
Tutti si lamentano per il caldo.

Una magliettina, un paio di pantaloni e dei sandali bastano per andare in ufficio.
Quella magliettina sarà zuppa di sudore prima ancora di arrivare in ufficio.

Il bucato steso in balcone si asciuga rapidamente.
Bisogna lavare ogni indumento indossato per più di mezz’ora.

Gli orti traboccano di verdure gustose.
Gli amici, proprietari dei suddetti orti, regalano mazzi di verdure che devono essere lavate e cucinate.

Bastano due pomodori e un filone di pane per azzizzare un pranzo.
Non si possono mangiare solo pane e pomodori per tre mesi di fila e accendere il fornello comporta una sofferenza fisica considerevole.

Le scuole sono chiuse e le strade sono sgombre: per attraversare la città bastano pochi minuti.
Gli automobilisti rimasti in città, accecati dal caldo e dal livore verso chi è al mare, guidano come se non ci fosse un domani.

In tv trasmettono TecheTecheTè e film antichi al posto degli insulsi programmi del pomeriggio.
Sono sempre gli stessi film antichi e a TecheTecheTè c’è sempre e solo Paolo Panelli.

Vengono pubblicati molti gialli.
Molti di quei gialli sono brutti.

Chi vuole, può andare a mare.
Chi non vuole, subirà molte volte al giorno la domanda perché non vai a mare?

Tutti sudano, non solo io.
Io sudo comunque più degli altri.

Posso dire scusi, non le do la mano, sono troppo sudata lanciando uno sguardo di complicità all’interlocutore.
L’interlocutore risponderà lo sono anch’io, non fa niente, costringendomi a una stretta tra due merluzzi appena scongelati al microonde.

Si possono rimandare molti impegni di lavoro dicendo rimarremo chiusi fino a dopo Ferragosto.
Dopo Ferragosto ci sarà una valanga di lavoro arretrato da recuperare.

Si può stare in terrazza a leggere e bere limonata fino a molto tardi.
Si deve comunque rientrare nella casa bollente per andare a dormire.

La scusa del caldo si può utilizzare per non fare nulla tra le 14 e le 18.
Dopo le 18 ci sarà comunque ancora molto caldo.

Penso che le canottiere scollate mi facciano sembrare graziosa.
In realtà nessuno è grazioso quando è ricoperto di sudore.

Posso ignorare il posteggiatore adducendo la scusa del caldo per non dargli retta.
Attraversare piazza Magione sotto il sole è un’esperienza pericolosa quasi quanto un safari nella giungla.

Si bevono litri di Estathè con la scusa di reintegrare i liquidi persi.
Io bevo sempre litri di Estathè.

In questi giorni torridi mi sta facendo compagnia La vita sessuale dei nostri antenati di Bianca Pitzorno: interessante e molto ben scritto, ma anche interminabile.

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Letture-da-estate, ovvero il giallo come operazione commerciale.

Non c’è lettura più estiva di una raccolta di racconti gialli. E poi si sa, amo i libri Sellerio – nello specifico, gli ebook Sellerio -, amo i gialli, amo i racconti: era naturale accompagnare questi giorni di caldo opprimente con un ventilatore sparato in faccia, molte confezioni di succo di albicocche e Turisti in giallo.

La ricetta di casa Sellerio è sempre la stessa: prendi una manciata di autori, più o meno bravi e simpatici e sulla cresta dell’onda, aggiungi una tematica di riferimento legata al calendario o al tempo atmosferico, Natale capodanno la scuola o le vacanze, e il best-seller è fatto. Ineccepibile strategia editoriale, meglio nota come squadra che vince non si cambia: tanto, per ora, basta mettere il nome di Manzini o di Malvaldi e si vende anche l’elenco del telefono.

Intendiamoci, non è male, Turisti in giallo: è il tipicissimo libro da ombrellone, senza pretese culturali radical-chic; il difetto sta tutto nell’avere messo insieme autori diversi, con stili e abilità narrative diverse, che sbilanciano il libro facendolo passare da piacevole e godibilissimo ad assolutamente irritante nel giro di due pagine.

I racconti migliori, come è prevedibile, sono quelli di Manzini e Malvaldi: due veri gialli, con trame brevi ma sensate. Rocco Schiavone continua a lamentarsi per il freddo, il che, tre romanzi e un pugno di racconti dopo, inizia a diventare un po’ stucchevole, ma suppongo che non smetterà mai di farlo, quindi pace; la trasferta in montagna senza vecchietti al seguito, invece, fa respirare il barrista Massimo e i suoi lettori: ne viene fuori un racconto spiritoso e brillante, fuori dai soliti stereotipi e dal trito scambio di battute usuali. Il contributo di Piazzese, invece, potrebbe spingere alle lacrime i suoi lettori della prima ora: sembra scritto all’indomani di La doppia vita di M. Laurent e il sapore un po’ retrò dato dai prezzi in lire è stemperato dalla tenerezza di avere ritrovato un vecchio amico, quel Piazzese che con gli anni si è un po’ (un bel po’) perso, in grande spolvero. Alicia Giménez-Bartlett fa il suo lavoro, come sempre: un raccontino un po’ stiracchiato ma salvato dalla indubbia maestria dell’autrice e dalla caustica simpatia di Petra &co.

Un discorso a parte meritano Recami e Savatteri: e lo so, lo so, a me non andrebbero a genio neanche se scrivessero un panegirico sulle mie indubbie qualità di venditrice di cocomeri, ma insomma. Sul perché Recami, che scriveva bellissimi non-gialli, si ostini a scrivere brutti gialli, mi ha illuminata la lettura di La memoria di Elvira: però accidenti, questo racconto è, come sempre, di rara inutilità e mancanza di senso ed eleganza e mera logica. Quanto a Savatteri, l’impressione è che a lui piaccia scrivere più di quanto agli altri piaccia leggere quello che scrive: e quindi, ecco il solito racconto over-size, che di giallo ha solo il nome, pieno di riferimenti e strizzatine d’occhio e auto-pacche sulle spalle e quanto-sono-figo. Sbuff.

Sembra che il caldo non passerà molto presto: quindi, niente paste e risotti e pizze e frittate, ma via libera a un bel frullato a base di yogurt e pesche gialle: freschissimo, dissetante, pieno di sali minerali e, perché no, anche dietetico.

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Vi prego, non smielate sui gialli.

Mi piacciono molto i gialli, mi piacciono molto i libri ambientati a Napoli, mi piacciono molto le storie raccontate bene: per questo mi sono innamorata subito della serie che Maurizio de Giovanni dedica al commissario Ricciardi. Ho letto i romanzi in ordine, per non rischiare di perdere qualche allusione o rimando: cominciando da Il senso del dolore, che ho amato, regalato e consigliato con prodigalità. Non gli mancava niente, per essere un ottimo giallo: la trama non scricchiolava, la soluzione era sensata e il procedimento per raggiungerla era comprensibile, asciutto, motivato. Il rischio che avevo ventilato nelle prime pagine, quello di un “aiuto sovrannaturale” dato dal Fatto, era stato rapidamente scongiurato. Avevo atteso con ansia tutti i volumi successivi: mi erano piaciuti, alcuni più di altri, con la punta di diamante di Per mano mia a svettare. Poi, però, uff, mi sa che l’autore si è un po’ incartato con la scivolata sentimentale.

All’inizio era un espediente simpatico, questo dell’uomo bello e tenebroso, dagli enigmatici occhi verdi, conteso dalla bella, ricchissima Livia e dalla modesta, anonima e noiosissima Enrica. C’era un che di incomprensibile – ma chi gliele portava, queste due, a perdere la testa per un uomo grigio e tetro come Ricciardi? – ma i continui riferimenti allo sguardo della giovane al di là del vetro e agli inviti a teatro della matura cantante non appesantivano troppo la storia. A un certo punto, però, la serie ha iniziato a virare pericolosamente verso il polpettone: tra lacrime solitarie e baci nel buio, pressioni materne e biondi ufficiali tedeschi, cantanti ubriache e discinte che cercano di imporre il proprio amore e bieche spie fasciste arse dal desiderio di vendetta, Anime di vetro si perde un po’. Gli interludi lirici, in cui de Giovanni canta la sua città in toni da cartolina illustrata, già abbastanza pleonastici in tutti i volumi – la sensazione è quella dell’autore che si è divertito di più a scriverli di quanto non faccia il lettore a leggerli – qua sono davvero poco funzionali alla storia; il corsivo che racconta del suonatore di mandolino alle prese con la canzone della falena, da cui l’enigmatico sottotitolo del romanzo, è francamente noiosetto e un po’ troppo retorico. Una serie che aveva il suo punto di forza in gialli asciutti, dal ritmo incalzante e privi di sbavature sembra stare ripiegando verso il feuilleton: vi prego, facciamo qualcosa. Già è poco sopportabile la tendenza di Camilleri a far buttare tra le braccia del commissario Montalbano ogni essere umano di sesso femminile lo incontri: Ricciardi perennemente preda degli sbalzi ormonali delle non-sue-belle proprio no. Che scelga: una, l’altra, entrambe, nessuna, una terza a sparigliare le carte, ma per favore, basta lacrime, piagnistei e inutili ripistiamenti. Quanto all’utilità di tutto quel mare, me la sono chiesta spesso anche io.

A volte, nei libri di de Giovanni, si inciampa in qualche ricetta: quella del polpettone confezionato dalla moglie di Maione mi ricorda, con qualche variante, quello che preparava mia nonna.

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Consigli per gli acquisti, ovvero L’amore come non lo avete mai conosciuto.

Non sono una lettrice portata per i classici, si sa: non ho letto Cime tempestoseOrgoglio e pregiudizio, e neppure I Buddenbrok o Guerra e pace o Il Maestro e Margherita, e non ne sento la necessità; al solo nominarli, vengo sommersa da un’ondata di noia auto-indotta, le parole perdono senso e si mescolano in un magma ribollente di acciocché, ordunque, sacripante.

Non so se Georges Simenon possa essere definito un autore classico: probabilmente sì, ma Simenonpreferisco non saperlo, per evitare un blocco-del-lettore-a-posteriori. In ogni caso, in una delle mie (purtroppo adesso) rare sortite in libreria, una brutta copertina color gianduiotto squagliato mi ha attratta: era Lettera al mio giudice, che io ricordavo di aver sentito lodare da qualcuno che poi ho scoperto essere Andrea Camilleri, per bocca del commissario Montalbano. Di Simenon avevo letto solo una manciata di gialli: li ricordo tutti uguali, grigi, anonimi, pagine su pagine di brume, nebbia, nuvole biancastre, capelli umidi, baveri rialzati e pipe da caricare. Avevo sentito dire, è vero, che i suoi libri non-gialli erano davvero tutt’altra cosa, ma non avevo indagato personalmente. E invece, spinta dal caso e dal tedio di non trovare da molti mesi una lettura che valesse la pena, ho iniziato a leggere Lettera al mio giudice e ne sono rimasta estasiata. In preda alla mia consueta bulimia letteraria, ho cercato tra le pieghe del kindle un altro libro dello stesso autore: ed è venuto fuori La camera azzurra, un romanzo che si può definire senza dubbio poco meno che perfetto. Sono, tutti e due i libri, tra le indagini più accurate e precise e impietose e spaventose dell’universo emotivo di una persona che io abbia mai letto: storie di amore che sconfina nella malattia, nell’ossessione, nella perversione, nel senso più letterale di per-vertere, travolgere. Due romanzi in cui non ci sono buoni e cattivi, in cui ogni parola, ogni gesto, ogni reazione sono studiati, motivati, sensati. In cui la violenza, l’atto spregiudicato o ferale non sono frutto di malvagità o prepotenza, ma di un malinteso senso dell’amore, della responsabilità di coppia, della ricerca della felicità. Sono, questi, due libri da leggere scegliendo di mettersi in discussione, di ascoltare e capire: per non banalizzarli, per non tradire il senso dei personaggi, per non fare quello che Charles teme sopra ogni cosa, quello che lo spinge a scrivere, appunto, a chi lo ha appena giudicato: non essere compreso e sentire interpretare il proprio gesto come frutto di follia, di impulsi non governati, di uno scatto d’ira, quando il senso è diametralmente opposto. Sono libri precisi come meccanismi a orologeria, e come questi sono pericolosi, spaventosi. Contengono in sé l’intera gamma di sentimenti che un rapporto di coppia può contenere: volontà di protezione, gelosia, amore, passione, desiderio di impadronirsi dell’altro, senso di onnipotenza e frustrazione. Sono stupendi, e chiunque viva o abbia vissuto una storia d’amore dovrebbe leggerli.

La camera azzurra, nell’edizione Adelphi, ha una splendida traduzione: la persona che l’ha tradotto non è da meno.

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Un panino può salvarti la vita.

Nella mia affannosa ricerca di ricette adatte per pranzo e cena – semplici da preparare, non troppo costose, senza aglio o cipolla o erbe aromatiche o spezie diverse dal curry, che non sporchino irrimediabilmente la cucina né facciano troppo casino – ho trovato un insperato alleato: i panini da hamburger. Come quelle persone che, pregne di carisma e seduzione, spargono fascino su chi sta al loro fianco, i panini tondi e morbidosi e ricoperti di semi di sesamo rendono interessante anche una rondella di pomodoro.

Qualsiasi alimento, anche il meno saporito, se ficcato in un panino da hamburger e abbinato a un velo di maionese acquista un non-so-che particolare e risolve egregiamente un pasto. La prima opzione, chiaramente, è proprio l’hamburger: impastato dalle sapienti manine di mia madre, cotto in padella e servito con patate al forno (o con purè, se il tempo è poco) e dentro un panino con maionese e insalata è il pranzo del sabato in casa nostra. Anche la frittata – nelle varianti con patate, con zucchine a pezzetti o tritate, con funghi – può farcire dignitosamente un panino, e qualsiasi cosa possa essere mescolata a un impasto di uova e cotta in padella o ridotta a polpette e fritta o cucinata in forno; l’ultima scoperta salva-cena, rubacchiata da un settimanale femminile a cui sono abbonata da molti anni, è stata quella dei finti-falafel: ceci – della pregiata varietà in scatola, scolati dell’acqua di conservazione – frullati con un uovo, ricotta, parmigiano e pangrattato, e poi polpettati e rotolati allegramente nel pangrattato. Cotti in forno per pochi minuti e schiaffati in un panino con della salsa allo yogurt e menta hanno ricevuto applausi a scena aperta e sono entrati a pieno titolo nell’elenco dei piatti-tipo che preparo con una mano sola, gli occhi sullo schermo del pc e le orecchie piene di 99 posse.

Da molto tempo ho difficoltà a trovare qualcosa che mi piaccia leggere. Ho scartato in rapida successione tre o quattro gialli nordeuropei, un romanzo italiano molto esaltato e altrettanto noioso, una raccolta di racconti gialli sul tema della crisi, una silloge di scritti su una famosa editrice palermitana da poco scomparsa, un numero sproporzionato di romanzi consigliatimi sui social network e appena sfogliati. Poi, mentre ero in libreria a comprare un regalo, ho intercettato Lettera al mio giudice di Simenon; di quest’autore avevo letto solo i gialli con Maigret, gradevoli ma di una snervante monotonia, ma ricordavo che qualcuno me ne aveva parlato bene. L’ho estorto a mio padre e lo sto leggendo con reale voluttà, come non mi capitava da moltissimo tempo. C’è, in questo libro, una storia di amore e ossessione e passione e follia, sezionata con pacatezza e lucidità; mi sta ricordando, per certi versi, A sangue freddo, nella capacità di far provare empatia per un colpevole, tagliando via i giudizi e lasciando soltanto l’umanità dei sentimenti, delle emozioni, della vita.
Adesso che l’ho quasi finito e che già comincia a mancarmi, mi sono ricordata chi me ne aveva parlato: il commissario Montalbano, accidenti. Chi trova il riferimento e me lo indica – lo sto cercando invano – vince un bonus.

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Una nanetta per amica.

Una parte del lavoro alla casa editrice piccolamacarina consiste nell’organizzare e tenere corsi in cui insegnare alle persone – di solito ragazze, laureate o laureande in Lettere o Scienze delle comunicazioni, con le idee molto confuse ma tanta buona volontà – come si lavora in una casa editrice piccolamacarina. Alla fine di ogni ciclo di corsi, due persone per modulo vengono scelte per uno stage: staranno due mesi con noi, faranno tutto quello che facciamo noi, dalle file alla posta all’imballo dei pacchi alla stesura di comunicati e schede libro, saranno contente o nervose o frustrate o soddisfatte come noi e si conquisteranno un posto inespugnabile nel mio cuore. Se c’è una cosa che mi riesce bene, infatti, è stringere rapporti di quasi-amicizia con ognuna di loro: ascolto le loro storie, tento di incoraggiarle e stimolarle, ficco il naso nelle loro vite e lascio che loro lo ficchino nella mia. Sono affezionata a loro, come potrei esserlo a delle cuginette devote e spiritose o a dei cuccioli di cocker, buffi e simpatici e goffamente divertenti. Sono le mie nanette.

In questi giorni, le nanette che allietano le nostre giornate sono tre: tre ragazze intelligenti, brillanti, piene di fantasia e di buone iniziative. Due le ha scelte collegacanealpha, una l’ho scelta io: essenzialmente per il suo sorriso aperto, sincero, da persona che si butta, col cuore e con la testa, in tutto quello che fa. In questi mesi mi hanno raccontato delle loro vite, dei loro genitori e fidanzati e animali domestici, insieme abbiamo trepidato per gli ultimi esami universitari e gioito agli ovvi bei voti. Abbiamo festeggiato l’imminente partenza per l’Erasmus di una delle tre, abbiamo mangiato torte e trasportato scatoloni e tavoli e banner. Abbiamo condiviso domeniche mattina in un rovente stand di plastica e concitati sabati sera tra scrittori ed editori. Abbiamo passato moltissime ore insieme: noi parlando, spiegando, motivando, discutendo, loro annuendo, chiedendo spiegazioni, interpretando, ipotizzando. Presto andranno via, e so già quanto mi mancheranno.

C’è un muro speciale, nella casa editrice piccolamacarina: ci sono appesi biglietti e post-it lasciati dalle nanette: quelle che sono tornate mille volte a trovarci, quelle che si sono trasferite molto lontano da qui, quelle che abbiamo nominato luogotenenti sul campo, quelle che, quando ci incontrano, sono felici di vederci. Alcune sono rimaste nell’editoria, e ne sono felice: vorrei il meglio per ognuna di loro. Vorrei che fossero felici, le tre nanette e anche tutte le altre, quelle che adesso sono via: che trovassero un lavoro che le gratifichi, e sempre nuovi sogni da inseguire; che non perdessero mai il sorriso che hanno adesso, quando arrivano ogni mattina dicendo buongiorno, piene di voglia di scoprire qualcosa di nuovo. Vorrei, per ognuna di loro, sempre nuove sfide che le stimolino, sempre nuovi traguardi che le spingano a dare di più, sempre nuovi giorni di sole. A presto, nanette, sarò triste senza di voi.

Non sono appassionata di classici, né di librivecchi, si sa; ma sto leggendo Lettera al mio giudice di Simenon, e accidenti, è davvero un capolavoro.

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Domandare è lecito?

«Quando mi dicono: ti potevi vestire meglio. E io mi ero già vestito meglio».

Che adoro Francesco Piccolo si sa – da qualche giorno lo sa anche lui. Mi piace come scrive, come parla, come argomenta: mi piace soprattutto il suo modo di notare le cose e svelarle, quando erano sempre state lì ma non ci avevo mai fatto caso. Così, per confermare la teoria che quello che Piccolo scrive è qualcosa che ho vissuto, vivo o vivrò, ecco che la fatidica frase mi è stata detta: ti potevi vestire meglio. Non da mia madre, che potrebbe essere vagamente giustificata nel suo ruolo di consigliera-non-richiesta, ma da una persona con cui non sono così in confidenza da rispondere anche tu. Ho incassato e sono rimasta in silenzio: né avrei mai potuto fare altro.
Subito dopo il disappunto iniziale, è subentrata l’annosa domanda: perché alcune cose si possono dire e altre no? A me non verrebbe mai in mente di criticare apertamente una persona per il suo abbigliamento: a meno che, appunto, non si trattasse di mia madre, e anche in quel caso cercherei di essere più accomodante e malleabile. Del vestiario di amiche e colleghe non mi sono mai interessata: ma ho la certezza assoluta che, se andassi da collegamodaiola dicendo che shorts e ciabattine non mi sembrano una mise adatta all’ufficio, verrei immediatamente rintuzzata, tacciata di scortesia e maleducazione e ostracizzata. Perché, allora, altri possono dire a me che sono vestita in modo inadeguato, e devo anche tacere? Nella mia personale visione del mondo, un paio di pantaloni neri, una maglietta – nuova, carina, leggermente scollata, sagomata in vita, pulita, stirata, senza buchi o macchie di marmellata – e un paio di sneakers sono una tenuta adatta a un pomeriggio di lavoro, considerato che non presto servizio in un Pronto soccorso, nella cucina di un ristorante, su un autobus di linea o alla corte di Sua Maestà. Ma a una femminuccia si addice la gonna, o la scollatura pronunciata, o i capelli di parrucchiere: quindi devo scegliere se stare con le ginocchia al vento o farmi criticare e tacere: ché il mio irrispettoso e oltraggioso anticonformismo mi porta a non poter rispondere, se non voglio passare per una persona acida e imbruttita. È lo stesso principio per cui verrei linciata se dicessi a conoscentegrassa mangia un po’ meglio, non vedi che sei una balena?, mentre tutti possono dire alla mia bella come sei magra, mangia di più (anche nell’odiosa versione a me rivolta guarda com’è magra, falla mangiare di più, a cui non potrei mai ribattere guarda l’adipe di tuo marito, vuoi che gli venga un infarto?). Offendere le persone sovrappeso è un tabù, insultare le magre è lecito. Tingersi i capelli di rosso tiziano o nero corvino va bene, tingerli di verde è da punkabbestia. Gli osceni colpi di sole di amicafrescadipiega non possono essere criticati, i miei capelli più lunghi della media sì. Chi decide cosa è lecito dire e cosa no? Chi sceglie quali domande sono inopportune e quali vanno bene? Perché una persona grassa dovrebbe essere ferita da una frase poco gentile, e una magra dovrebbe considerare quella frase un consiglio? Lasciate in pace la mia maglietta, i miei capelli e la mia bella, una buona volta.
Incontrare Francesco Piccolo è stato bello; scoprirlo alla mano, arguto e simpatico come speravo ha completato il quadro. Gli ho chiesto di scrivermi una dedica su Storie di primogeniti e figli unici: un libro che non smetterò mai di consigliare.

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Del tempo perso, del tempo consumato ad aspettare, del tempo rovinato.

Quando aspetti qualcuno che dovrebbe arrivare, e di solito non è particolarmente

ritardatario ma sono già diversi minuti che stai lì e non lo vedi, e vorresti chiamarlo al cellulare ma non sei abbastanza in confidenza e non vuoi apparire pressante e quindi continui a sederti sulla panchina e poi alzarti e fare il giro della piazza e sederti, provi a guardare da un’altra parte sperando che ti arrivi alle spalle e ti poggi una mano sulla schiena scusandosi a mezza voce di averti fatto attendere ma mi dispiace, lo sai, il traffico, e invece niente.

Quando tutto questo succedeva una quindicina d’anni fa, e se volevi telefonare dovevi pescare una moneta da duecento lire dal fondo della tasca dei jeans e trovare un telefono a gettoni e sfogliare l’agendina fino a recuperare il numero di casa della persona che stavi aspettando, e la madre ti rispondeva che guarda, è uscito già da una mezz’ora, anzi dovrebbe essere lì, e tu ti guardi intorno ma lui indiscutibilmente non è lì.

Quando, ai concerti, il cantante inizia a enumerare i musicisti, e sai già che ognuno farà un piccolo assolo e probabilmente due di loro – di solito imbracciando una chitarra e un basso – si metteranno faccia a faccia e inizieranno a suonare facendosi grandi sorrisi e piegandosi ritmicamente sulle ginocchia e buttando indietro la testa, e tu vorresti solo che facessero ancora qualche canzone invece di consumare i minuti prima della fine della serata facendo i figoni.

Quando l’acqua della pasta non bolle, o quando la pasta è cotta e i cubetti di melanzane sfrigolano nell’olio bollente già da molti minuti ma sono anemici e tristanzuoli come bambini milanesi a febbraio, e la scelta è se mangiare pasta scotta o melanzane crude e alla fine opti per una via di mezzo che scontenta tutti. Quando lo sformato è in forno da interi quarti d’ora e, nel momento in cui decidi di tirarlo fuori, ti accorgi che ha il cuore freddo come quello del cattivo di Canto di Natale, e devi riprendere la teglia e rificcarla nel forno sperando che sia la volta buona.

Quando stai parlando al telefono con qualcuno e il motivo della chiamata si è esaurito già da molto, ma l’altra persona continua a parlare e ignora deliberatamente i tuoi tentativi di mettere giù, e tra mugolii di vago assenso e va bene va bene ripetuti in loop cerchi di tagliare corto ma non sembra ci siano speranze. Quando, superata questa fase, si passa ai va bene, allora ciao, ciao eh, buona serata, e si riescono a tirar fuori sedici diversi modi di augurare all’interlocutore un sereno prosieguo di giornata mentre lui, ormai stremato, sta schiumando di rabbia con la cornetta in mano. Quando una persona si trattiene in convenevoli davanti alla porta aperta, e tu vorresti solo poterla chiudere e ritornare a farti i fatti tuoi.

Quando uno scrittore si compiace di inserire una dettagliata descrizione a rovinare il ritmo di un romanzo passabile, e ti chiedi dove vada a parare di preciso e la continui diligentemente a leggere anche se sarebbe bastato fermarsi alle prime tre righe per capire che no, quel prato svizzero trapunto di bocche di leone non ha alcun ruolo narrativo nella storia e anche se non conosci la tinta precisa di lilla della corolla del terzo fiorellino da sinistra potrai lo stesso capire chi ha ucciso il maggiordomo.

È tempo sprecato quello consumato nella ricerca di qualcosa di decente da leggere, tra un romanzetto sbocconcellato svogliatamente e un giallo scagliato via con stizza. Per ora ho tra le mani Accabadora di Michela Murgia: godibile, ma mi ricorda vagamente il portentoso L’arte della gioia di Goliarda Sapienza, senza averne la potenza e la stimolante capacità di provocare, coinvolgere, mettere in discussione.

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