Ditemi se questo è un uomo (o se lo è stato)

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I consigli del libraio di Mondello sono ottimi, quasi sempre. A volte capita anche a lui di indicarmi un libro, che magari non ha letto ma di cui ha origliato/ipotizzato/immaginato buone critiche, e che a me non piace. L’ultimo è stato L’anno della lepre di Arto Paasilinna, che avevo comprato essenzialmente perché è considerato un cult della letteratura nordeuropea e poi perché il bravo libraio mi aveva detto che gli avevano riferito che sì, quel libro vale davvero la pena di leggerlo. A me non ha convinto: mi è sembrato stucchevole e a tratti sciocco, più un insieme di novelline per ragazzi che un romanzo per adulti. Ma, dato che i gusti sono gusti, mia madre me lo ha chiesto in prestito – spinta quasi solo dal fatto che a me non era piaciuto e che lei, quindi, lo avrebbe sicuramente adorato. Come da copione, le è piaciuto, e mi ha pregata di tornare in libreria con una piccola carriola per recapitarle a casa l’intera produzione di Paasilinna. Dato che sarebbe inumano chiedere a una persona come me di entrare in libreria e non scegliere niente, ho tentato un compromesso: chiedere un libro che ero ragionevolmente sicura di non trovare, per poterlo ordinare e ritirare in un secondo momento. Ma – stupore e giubilo e squillo di trombe a festa – Lo specchio di Sarajevo di Sofri c’era. Era nascosto nello scaffale più alto dell’espositore più lontano dal bancone, infilato di taglio in mezzo a una serie di grossi cataloghi d’arte, ma c’era. Doveva essere lì da molto: la copertina è sbiadita e davanti ha un grosso sfregio, frutto di un incontro non desiderato con un tagliabalsa; il prezzo sulla quarta è 24.000 lire. Lo cercavo da anni. La mia passione per la scrittura di Adriano Sofri non è un segreto; ho letto quasi tutto quello che ha scritto, e ho amato il 95% di quello che ho letto; l’unico che ho trovato difficile da mandar giù, tra i suoi libri, è quel Il nodo e il chiodo che lui considera suo testamento spirituale: unica attività, la scrittura di quel saggio, per cui vorrebbe essere ricordato. Ho apprezzato la delicatezza di Contro Giuliano, la lucida stanchezza di Le prigioni degli altri, lo scrupolo storico di La notte che Pinelli. Lo specchio di Sarajevo, in particolare, è struggente e obbiettivo e colmo di pietà e dolore e rabbia fredda e compassione e quella sensazione di incomprensione da parte del mondo che ha portato Primo Levi ad uccidersi. È la cronaca dell’assedio della capitale della Bosnia raccontato dal di dentro: Sofri, infatti, era lì, a raccontare con i suoi articoli la non-vita dei sarajevesi murati in una città vittima di un assedio medievale, alla fine del ventunesimo secolo, nel cuore dell’Europa. La maggior parte delle pagine trasuda dell’incredulità per la debolezza e la complicità delle nazioni unite nel massacro di un intero popolo. Per cercare di documentarmi un po’ ho letto tutte le pagine di wikipedia dedicate all’assedio di Sarajevo, alla strage di Srebrenica, alla guerra nei Balcani; sono rimasta senza parole: secondo l’ ”enciclopedia libera”, i bosniaci, senza giri di parole, se la sono cercata. Ho provato fastidio fisico nel leggerlo. Posso provare a immaginare il senso di sconvolgimento che doveva provare chi, bersaglio inerme degli snajper, ha passato quasi quattro anni ad aspettare dei liberatori che non arrivavano. Lo sconvolgimento che Sofri non nasconde quando continua a gridare e implorare e minacciare e domandare, dalle pagine di giornali e riviste, che il mondo non può continuare a stare a guardare, a meno che non accetti di sentirsi colpevole né più né meno dei cetnici e dei macellai che li hanno guidati.
Avrei voluto aggiungere una ricetta a questo post, ma davvero non avrebbe senso: una città che non ha mangiato altro che cibi in scatola scaldati su un fuoco di stracci e carta di giornali e pezzi di mobili per quattro anni, una città in cui la gente è morta di freddo e sete e stenti mentre il resto del mondo pensava ad altro merita almeno questa minima, inutile, retorica forma di rispetto. Forse un giorno visiterò Sarajevo; nessuno di noi, però, dovrebbe mai dimenticare che Sarajevo oggi è in Italia, in Olanda, in Svezia. Che Sarajevo sarebbe dovuta essere all’angolo della nostra strada, ogni giorno.

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2 Responses to Ditemi se questo è un uomo (o se lo è stato)

  1. luigi.t says:

    letto un altro del finalndese… l’avevano venduto come un genio dell’ironia… non m’ha nemmeno fatto sorridere… fortuna l’avevo pagato 1 euro sulla baia…

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