Spaghetti Marziali 5

Share on Tumblr Share

(Continua il viaggio nel cinema western contaminato con le arti marziali. Il saggio completo in eBook gratuito lo trovate qui)

Nel dicembre del 1973 Mario Caiano porta in sala il primo vero esempio italiano di western marziale: Il mio nome è Shanghai Joe (anche se le locandine dell’epoca riportano la scritta “Shangay”). L’attore improvvisato che veste i panni del guerriero cinese, Chen Lee, è molto lontano dalla qualità di Lo Lieh (si dice anzi che fu reclutato in una palestra romana!) e dopo alcuni film italiani sembra aver abbandonato il mondo del cinema.

È la storia classica di un emigrante straniero (cinese, in questo caso) che cerca un onesto lavoro nel Far West ma incappa in un bieco boss locale che sfrutta il lavoro dei poveri braccianti. Il cinese non è tipo da farsi sfruttare e reagisce alle provocazioni, tanto che viene spiccato un mandato di cattura per quello che viene battezzato Shanghai Joe. Ma quale cacciatore di taglie (come Klaus Kinski) o sceriffo saprà battere il kung fu del cinese?

Aiutato dallo stupendo tema musicale di Bruno Nicolai – che non fa molta fatica, in quanto ripropone pressoché identico il suo tema di Buon funerale, amigos!… paga Sartana (1970) – Il mio nome è Shanghai Joe piace, anche perché è violento proprio come vuole il pubblico: molto più dei veri film di Hong Kong. In un momento di incredibile citazionismo, Shanghai Joe cava gli occhi a un cacciatore di taglie, rifacendosi palesemente a quel Cinque dita di violenza che ancora spopola al cinema. E poi un attore di nome Chen Lee attira, vista la forte vicinanza con il nome di Bruce Lee e il suo personaggio più noto (Chen, appunto): chi gli ha scelto il nome posticcio, sapeva quel che faceva. Lo dimostra il fatto che quando pochi mesi dopo esce nelle sale “The Blind Boxer” con il titolo Dopo l’urlo un uragano di violenza («Per assistere a questo film ci vuole un cuore a prova di bomba!» recita il lancio della sua uscita nel maggio 1974) il nome di Chen Lee viene attribuito posticciamente al bravo Jason Pai Piao.

Intanto, finita la parentesi dei Tre Supermen, Bitto Albertini prende in mano l’idea di un sequel del cinese nel Far West. Il ritorno di Shanghai Joe, conosciuto anche come Che botte ragazzi! (titolo con cui è stato recentemente distribuito in DVD), arriva nel febbraio del 1975 ma, a parte la presenza di un Klaus Kinski in forma splendida, non c’è più nulla del film precedente. A partire da Chen Lie che, con l’aggiunta di una “i” nel cognome, si scopre essere un attore ancora peggiore del precedente Lee.
Quando in un paesino di poveri agricoltori viene trovato il petrolio, iniziano i guai. Il boss locale Barnes (Klaus Kinski) controlla la criminalità della zona e vuole mettere le mani sul petrolio, ma non ha fatto i conti con uno straniero appena giunto in città: un cinese di nome Shanghai Joe (Chen Lie).

Siamo lontani dagli occhi estirpati o dai tori uccisi con un colpo di kung fu del primo film, in questo sequel vige ormai la regola dei film con Bud Spencer e Terence Hill: botte sì, ma con umorismo così da stemperare. Con l’aggiunta del caratterista Tommy Polgár, infatti, nel sequel si crea una coppia d’azione pressoché identica a quella di Spencer-Hill: il piccoletto sveglio e l’omaccione spacca-tutto.

(alla prossima puntata)

Share on Tumblr Share
Posted in Cinema marziale | Tagged , , | Leave a comment

Spaghetti Marziali 4

Share on Tumblr Share

(Continua il viaggio nel cinema western contaminato con le arti marziali. Il saggio completo in eBook gratuito lo trovate qui)

Torniamo in Italia, dove le avventure marziali nel Far West di Carradine sono ancora di là da venire, così come si ignora ancora l’esistenza del Calabrone Verde e di un attore di nome Bruce Lee.
Nel gennaio 1973 esce nelle sale un qualcosa di totalmente nuovo, inaspettato ed assolutamente esplosivo: Cinque dita di violenza, e l’Italia è trascinata in un gorgo inarrestabile di passione per il cinema di arti marziali. I produttori si lanciano velocemente a comprare dal mercato cinese qualsiasi tipo di prodotto che assomigli anche vagamente a quel film, ma nessuno in seguito ne ha eguagliato il successo al botteghino, neanche il molto più celebre Dalla Cina con furore, importato nel marzo di quell’anno proprio per soddisfare i nuovi appetiti marziali del pubblico. È scoppiata la febbre italiana del gongfupian, e l’attore di quel primo film da noi conosciuto diventa all’istante un vero mito: un bravo attore caratterista di nome Lo Lieh.

I primi mesi del 1973 vedono dunque l’Italia divisa in due: i grandi campioni di incasso al botteghino sono gli intramontabili western ma anche la nuova moda del gongfupian, il cinema di arti marziali che tutti i critici disprezzano ma che tutti gli spettatori pagano per gustare. È quasi automatico per alcuni produttori tentare di fondere i due generi.

«Lo Lieh è un personaggio maledettamente umano, benché faccia cose umanamente impossibili» spiega lo sceneggiatore Yeh I Fang in una storica intervista ad Oriana Fallaci sulle pagine de “L’Europeo” (19 agosto 1973). Il giornalismo italiano tenta sin dall’inizio di affossare il genere marziale, associandolo al fascismo o usando in genere giudizi molto poco lusinghieri. («Grazie al kung-fu il cinema ha toccato il fondo della violenza bruta» scrive Laura Bergagna su “La Stampa” del 28 luglio 1973.) Ma questo non vuol dire che il pubblico non ami vedere attori picchiarsi sullo schermo con strane e fantomatiche arti asiatiche. E i produttori non hanno bisogno d’altro.

Lo stesso anno dello sterminato successo italiano di Cinque dita di violenza, Bitto Albertini infila Lo Lieh nel film Crash! Che botte (Strippo strappo stroppio) (1973), scritto e diretto da Albertini stesso: una co-produzione fra l’italiana INDIEF e la celebre Shaw Bros di Hong Kong. (Proprio mentre la Warner co-produceva con la Golden Harvest il film I 3 dell’Operazione Drago.) È l’ennesimo episodio della saga dei Tre Supermen, curiosi eroi funambolici in calzamaglia che all’epoca stanno ripercorrendo (parodiandoli) tutti i generi di successo. Il film ricrea lo stile dei film di Hong Kong che man mano stanno arrivando in Italia, e il povero Lieh si ritrova a combattere con la tutina rossa dei Tre Supermen. L’attore però è destinato ad altro futuro.

(alla prossima puntata)

Share on Tumblr Share
Posted in Cinema marziale | Tagged , | Leave a comment

Spaghetti Marziali 3

Share on Tumblr Share

(Continua il viaggio nel cinema western contaminato con le arti marziali. Il saggio completo in eBook gratuito lo trovate qui)

La Warner Bros si accorge che ci sono molte idee che bollono in pentola, in questo 1971. Se in Europa stanno fondendo western e chanbara, in casa propria la concorrente 20th Fox ha appena concluso una serie di successo come Il Calabrone Verde (The Green Hornet) che addirittura utilizza la stessa lotta cinese che si vede abbozzata nei film di spionaggio tanto amati dal pubblico: film come il britannico Agente 007: si vive solo due volte (1967), avventura di James Bond svolta tutta in Giappone. Insomma, pare che l’Asia sia il tema del momento.

La Warner inoltre sa bene che negli ultimi mesi è scoppiata una febbre inarrestabile che ha cambiato il modo di fare e vedere il cinema. Sa che nella lontana Hong Kong si è tentato un esperimento dal successo inaspettato e travolgente: si sono posate le spade e le lance, si sono dismessi gli abiti lussuosi e principeschi e, vestiti da gente qualunque, gli attori hanno iniziato a picchiarsi sullo schermo, utilizzando più o meno fedelmente stili di lotta codificati. In una parola, è nato il gongfupian, il cinema di arti marziali che, malgrado la condanna unanime di tutto il mondo dell’informazione, sta galvanizzando milioni di spettatori in tutto il globo. La Warner decide sin da subito di cavalcare il Dragone.

Il produttore Jerry Thorpe rispolvera un soggetto che da circa sei anni prende polvere alla Warner, scritto da quel Fred Weintraub che sarà di lì a un paio di anni produttore di uno dei più grandi successi marziali della Warner: I 3 dell’Operazione Drago. Affidato ad Ed Spielman il compito di trasformare l’idea di Weintraub nella sceneggiatura per una serie dal titolo Kung Fu, serve un attore. Per fare uno sgarro alla Fox sarebbe perfetto ingaggiare il co-protagonista de Il Calabrone Verde, un attore sconosciuto che da anni appare in piccoli ruoli e in consulenze tecniche: un attore di nome Bruce Lee. Ma un cinese protagonista di un film o di un telefilm è qualcosa che non si può proporre al pubblico americano, così il povero Bruce viene scartato (adducendo scuse come il fatto che non si pensa possa avere la giusta profondità espressiva!) e se ne torna ad Hong Kong a diventare un idolo immortale.

Thorpe intanto si è fissato che nel ruolo protagonista ci vede bene un attore che ha notato in uno spettacolo di Broadway molto mistico: un giovane e promettente David Carradine. «Quando il copione di Kung Fu mi venne tra le mani, seppi che era l’occasione giusta – racconta entusiasta Carradine nel suo saggio Lo spirito di Shaolin (1991). – Non perché trattasse di arti marziali: nessuno di noi sapeva niente al riguardo. Era il contenuto che attirava.» Il totale digiuno marziale dell’attore viene controbilanciato dal fatto che alla serie lavora David Chow, ex campione di judo chiamato come consulente sulla storia cinese e sulle arti marziali.
Destino vuole che per le riprese del film appena terminato (America 1929: sterminateli senza pietà di Martin Scorsese) Carradine sia stato costretto a radersi i capelli a zero: si presenta al provino per Kung Fu a testa calva e non ci vuole molto altro per ottenere la parte di un ex monaco Shaolin. In ventotto giorni, in un freddo dicembre del 1971 nei dintorni di Los Angeles, viene girato il film televisivo Kung Fu: il segno del Dragone, episodio pilota di una serie di culto che ha raggiunto tre stagioni e svariati sequel.

Per il suo ruolo Carradine dice di aver pensato alle parole del produttore Denne Petitclerc, pronunciate durante le riprese del telefilm Shane in cui l’attore ricopriva il ruolo di un pistolero. «Petitclerc mi aveva chiesto di recitarlo come se fosse stato un guerriero samurai. Avevo capito perfettamente cosa intendesse dire».

Il 22 febbraio 1972 va in onda negli USA la storia di Kwai Chang Caine (David Carradine), figlio di un americano e di una cinese che arriva in America fuggendo dalla sua patria: nel Monastero di Shaolin, dove era riuscito ad entrare con gran fatica, ha ucciso il nipote dell’Imperatore per difendere l’amato maestro Po (Keye Luke). I ricordi dell’esperienza monastica lo accompagneranno per sempre, ma ora la sua vita è nel Far West, che attraverserà sia per ritrovare il suo fratellastro sia per aiutare gli indifesi che incontrerà lungo il cammino.

Malgrado tutte le ottimistiche premesse, l’episodio pilota è un insuccesso. Un western con i cinesi? Che roba è? È questa, secondo Carradine, la perplessità che spinge gli spettatori ad ignorare il prodotto. Ma la rete televisiva provvede a pubblicizzare meglio la trama e la validità del film, così alla seconda messa in onda è un successo eclatante. «Il programma venne preceduto dalla stretta di mano tra Richard Nixon e il presidente Mao che celebravano l’entrata della Cina nelle Nazioni Unite – racconta Carradine nel citato saggio. – Mi sembrò una coincidenza davvero singolare.» Ad ottobre possono iniziare le puntate della prima stagione di Kung Fu.

Una curiosità. Linda Lee Cadweell, la vedova di Bruce, racconterà in seguito che l’idea del telefilm Kung Fu fu del marito, ma la Warner non conferma e riconosce al solo Ed Spielman la paternità della serie.

(alla prossima puntata)

Share on Tumblr Share
Posted in Cinema marziale | 1 Comment

Spaghetti Marziali 2

Share on Tumblr Share

(Continua il viaggio nel cinema western contaminato con le arti marziali. Il saggio completo in eBook gratuito lo trovate qui)

Il più noto esempio di grande contaminazione arriva nel 1971 con il celebre Sole Rosso di Terence Young: il più autorevole interprete di samurai sullo schermo Toshirō Mifune incontra Charles Bronson, che da due anni negli occhi degli spettatori incarna l’uomo con l’armonica del leoniano C’era una volta il West. Il rozzo cowboy, duro ma con un cuore d’oro, incontra il nobile guerriero, altezzoso ma uomo d’onore. «Una nuova formula: il samurai-western» titola “La Stampa” all’uscita del film, notando come il regista di James Bond abbia «avuto la pensata di “aprire” il western tradizionale verso il Giappone, introducendo cioè, tra banditi, pistoleri, sceriffi e indiani, il personaggio del “samurai”». Non era proprio così, ma all’epoca non ci si fece caso.
Malgrado le critiche dei giornalisti – storia «quanto mai inutile e zeppa di luoghi comuni e di “bravate”», secondo “l’Unità” del 5 novembre di quell’anno – diventa subito un successo la storia di Link (Charles Bronson), tradito dal suo complice Gauche (Alain Delon) durante la rapina ad un treno che trasporta una preziosa katana giapponese, regalo dell’Imperatore al Presidente USA. Uno dei samurai sopravvissuti, Kuroda (Toshirō Mifune), aiuta Link a ritrovare il traditore perché vuole recuperare la katana rubata, dando vita ad una coppia davvero curiosa: il cowboy e il samurai nel Far West.
Non si può parlare di marzialità, visto che nelle rare scene di combattimento Mifune usa la katana, come vuole il personaggio, ma il fatto che la pellicola sia una produzione italo-franco-spagnola ci fa riflettere sull’interesse del nostro Paese in questo tipo di pellicole, e ci fa notare che pochi all’epoca (e oggi) si accorgono che il film è un rimaneggiamento di un prodotto precedente: il prodotto italiano che per primo fonde in grande stile western e chanbara.

Nel 1968 o 1969 – è difficile stabilirlo, data l’estrema rarità delle informazioni sicure relative alla pellicola, ma comunque prima di “Sole rosso” – Luigi Vanzi si veste con lo pseudonimo di Vance Lewis e dirige Silent Stranger, scritto da Vincenzo Cerami (sì, proprio il fedele autore di Roberto Benigni!). Non sembra che il film sia mai arrivato in sala, né è possibile risalire al suo “vero” titolo italiano: è davvero difficile credere all’Internet Movie Database e al suo stranissimo titolo Lo straniero di silenzio, che sembra più una balzana traduzione automatica.

Il protagonista è quel Tony Anthony che sin dal ’67 in Italia è noto per alcuni spaghetti western in cui si cala in un personaggio che strizza vistosamente l’occhio allo straniero senza nome del Clint Eastwood leoniano. Lo Straniero si imbatte stavolta in alcuni banditi che stanno cercando di rapinare un giapponese di un prezioso documento: pur se riesce a mettere in fuga i malviventi, non può evitare che il giapponese rimanga ferito a morte. Questi, prima di esalare l’ultimo respiro, affida allo Straniero il compito di riportare il documento in Giappone, dove potrà riscuotere una ricompensa di ventimila dollari. Inizia quindi l’avventura del personaggio nel paese del Sol Levante, dove scoprirà che non c’è molta differenza con il Far West americano. Fra mitragliatrici Gatling e katane, lotta sumo e scazzottate improbabili, lo Straniero vivrà avventure davvero rocambolesche.

A pochissimi anni di distanza da Per un pugno di dollari (1964) anche questo Silent Stranger vuole riprendere lo Yōjimbō di Kurosawa (con riferimenti più o meno mascherati), ma mentre la pellicola di Leone era un remake in chiave western, quello di Vanzi è una rivisitazione: e se Sanjuro (il protagonista di Yōjimbō) fosse un cowboy invece che un ronin? Il film è distribuito nei cinema statunitensi dalla Metro Goldwyn Mayer nel 1975 e recentemente ne sono state prodotte edizioni in home video anche in Germania: ma in Italia rimane un prodotto pressoché sconosciuto.

Mentre Sole Rosso impazza ancora nelle sale del nostro Paese, e Silent Stranger cade nel dimenticatoio dove giace tuttora, gli italiani vogliono continuare a cavalcare l’onda: così Ferdinando Baldi recupera un grande mito del chanbara come Zatōichi, il massaggiatore cieco nonché fenomenale spadaccino a dispetto della sua menomazione (rimasto ignoto in Italia per decenni, apprezzato giusto da pochi cultori del genere), e nel novembre del 1971 porta al cinema Blindman, la storia del pistolero cieco.

Nel ruolo protagonista troviamo lo stesso Tony Anthony di Silent Stranger, stavolta nella veste di un cieco malmesso («bieco, sgradevole, con certi colori incolti e polverosi» come viene descritto dai giornali dell’epoca) che attraversa il West diretto in Messico: qui sa che si nasconde il bandito Domingo (Lloyd Battista), con cui ha un conto aperto e una vendetta pronta da gustarsi fredda. Non disdegna, lungo il percorso, di raddrizzare qualche torto e far fuori qualche cattivo.
Considerando che gli americani arriveranno diciotto anni dopo a girare la propria versione di Zatōichi – Furia cieca (Blind Fury) con Rutger Hauer – si può dire che gli italiani dei primi anni Settanta siano all’avanguardia nel campo delle contaminazioni. Non mancano ovviamente giudizi taglienti dalla critica, come il quotidiano “l’Unità” che si chiede, il 28 giugno 1972, chi gliel’abbia fatto fare a Ringo Starr di partecipare alla pellicola.

Qualcosa però negli USA comincia a muoversi.

(alla prossima puntata)

Share on Tumblr Share
Posted in Cinema marziale | Tagged , , , , , , | 2 Comments

Spaghetti Marziali 1

Share on Tumblr Share

Inizio oggi a parlarvi di un argomento molto stuzzicante e poco trattato: la contaminazione fra cinema marziale e spaghetti western, un fenomeno tutto italiano. Su sollecitazione di Stefano Di Marino ci ho scritto un pezzo che è venuto più lungo del previsto, così ne ho fatto un eBook. Una breve sintesi la trovate sul blog di ACTION mentre l’eBook liberamente scaricabile lo trovate qui.
Se nessuna di queste soluzioni vi soddisfa, seguite questo blog: vi pubblicherò il saggio per intero, a puntate.

Le contaminazioni esistono da sempre e il mondo cinematografico ne è particolarmente sensibile. Generi all’apparenza diversi ma profondamente simili possono coesistere per anni finché non accade qualcosa che li fa incontrare, magari solo per poco tempo. È quanto è successo in una manciata di anni a cavallo del 1970, quando il mondo del cinema western ha cominciato a fondersi in modi imprevisti e, a sorpresa, l’Italia ha fatto la parte del leone generando un fenomeno subito dimenticato (almeno da noi) che alcuni hanno chiamato “kung fu western” e altri “soja western”, ma visto che sono prodotti in tutto e per tutto italiani nonché figli della stessa creatività che ha dato vita agli “spaghetti western”, chiameremo qui spaghetti marziali.

Per questioni politiche e belliche tristemente note, il Novecento ha visto Giappone e Stati Uniti entrare in un contatto fin troppo stretto, quindi è inevitabile che come ogni aspetto della vita anche il cinema di genere abbia cominciato a viaggiare sugli stessi binari, sebbene le basi nel background culturale siano molto diverse. I film western americani trovano in fondo un corrispettivo nei nipponici chanbara, dove al posto delle pistole fumanti ci sono spade che si incrociano (il cui fragore dà il nome al genere). Il ronin solitario che arriva in un paesino ed aiuta gli innocenti dai soprusi del cattivo di turno è un personaggio perfettamente sovrapponibile allo Shane americano, il cavaliere della valle solitaria che dal romanzo omonimo del 1949 di Jack Schaefer in poi è stato ripresentato in varie forme in film western. Sebbene simili, questi due generi viaggiano paralleli senza incontrarsi mai. (Anche quando uno scopiazza l’altro!) Poi qualcosa è cambiato.

Gli inizi di aprile del 1968 lasciano gli spettatori italiani perplessi: ma che ci fa quel giapponese in uno spaghetti western? Il film in questione è Oggi a me… domani a te! di Tonino Cervi, con sceneggiatura di un giovane e quasi esordiente Dario Argento. Il protagonista Brett Halsey (mascherato dietro lo pseudonimo di Montgomery Ford, decisamente più western) arriva allo scontro finale con un nemico davvero inedito: il perfido James Elfego, interpretato dal vero giapponese di Tokyo Tatsuya Nakadai. Non il solito caratterista italiano truccato da asiatico!
«Un western italiano col bandito giapponese» titola stupita “La Stampa” il 3 aprile. «C’è una cosa da nulla che funge da ventilatore sulla polvere del western all’italiana: il bandito è bensì il solito nevrotico, ma giapponese: sicché tra le pistole ruota tutt’a un tratto la scimitarra del samurai, e bagliori d’Oriente impreziosiscono la rude favola. Una trovata che forse Cervi deve alla sua accortezza di produttore, ma che sullo schermo lievita, diventa motivo fantastico».
Il film in seguito diventerà noto fra gli appassionati della coppia Spencer-Hill perché il buon Bud vi fa una parte, e questo farà dimenticare che lo scontro finale fra il buono con la pistola e il cattivo con la katana era qualcosa di incredibile: era una ardita citazione al contrario del finale de La sfida del samurai (1961), dove il buono ha la katana e il cattivo l’occidentale e vigliacca pistola.
In quell’anno nascono gli spaghetti marziali, ma ancora nessuno se ne è reso conto.

(alla prossima puntata)

Share on Tumblr Share
Posted in Cinema marziale | Tagged , , , , | Leave a comment

Man of Tai Chi

Share on Tumblr Share

Grazie a un amico, fenomenale “stanatore marziale”, mi sono visto “Man of Tai Chi” (2013), il film diretto e interpretato da Keanu Reeves da poco uscito in Asia: probabilmente la presenza del noto attore gli varrà la preziosa distribuzione italiana, ma nel dubbio ho preferito portarmi avanti con il lavoro.
Sgombriamo subito il campo dagli equivoci: questo film NON è cinese. È diretto da un americano ed è scritto da un americano (Michael G. Cooney, alla sua prima prova su un lungometraggio): che Hong Kong e Cina ci abbiano messo dei soldi è solo un dettaglio.

Protetto e cresciuto come un figlio da Yuen Woo-ping, il giovane Tiger Hu Chen ha avuto sicuramente le possibilità che i suoi “colleghi” non hanno avuto. Divenuto di gran moda e chiamato a lavorare in America, Woo-ping se l’è portato appresso a fare l’apprendista: è cresciuto facendo lo stuntman nei film di cui Woo-ping curava la coregorafia (da “La Tigre e il Dragone” a tutti i “Matrix”) e mentre imparava l’inglese da Lucy Liu sul set di “Kill Bill”, faceva amicizia con Keanu Reeves. Visto che Hollywood è una grande famiglia allargata, quando Reeves ha voluto esordire alla regia, il patto era chiaro: se voleva le coreografia di Woo-ping, il “pacchetto” prevedeva anche la presenza del protetto Tiger Chen.

Dividiamo in due “Man of Tai Chi”, per fargli più giustizia.
Keanu Reeves si scopre essere un regista fenomenale: per essere un’opera prima è davvero sorprendente! Bel ritmo, giusto montaggio, tanti set diversi per non far mai annoiare gli spettatori a cui delle arti marziali in realtà non frega niente, uno sfoggio nauseante di ricchezza perché ai poveri piacere vedere i ricchi in Lamborghini, primi piani al punto giusto, la skyline notturna di Hong Kong che fa sempre il suo bell’effetto e tutte le cosette al posto giusto. Si è assicurato il successo infilando in piccoli ruoli cameo dei mostri sacri autoctoni: la bravissima Karen Mok e il decano Simon Yam, che fanno come al solito i poliziotti, così è assicurato il massimo share di Hong Kong; il titanico Iko Uwais che fa il lottatore finale che poi non lotta, così tutta l’Indonesia è coperta.
Man of Tai Chi” è un film davvero studiato a tavolino, quindi il suo difetto principale sembra essere una certa mancanza di freschezza.

L’arta parte del film è quella “artistica”: è la classica, abusata, asfittica storia americana però calata in un ambiente cinese. Ma che c’azzecca?
Tiger Chen è un giovane stressato dal proprio lavoro: quando mai in un film di Hong Kong s’è visto qualcosa del genere? Il rapporto dei cinesi con il lavoro non è quello occidentale, ma lo sceneggiatore non se ne cura, e così non si rende neanche conto di fare due errori madornali in una storia cinese: manca totalmente l’umorismo ed è totalmente assente qualsiasi accento melodrammatico. Anche nei porno i cinesi mettono siparietti comici e drammoni mariomeroleschi!
Dimenticandoci quindi che Ticher Chen è cinese – visto che questo aspetto non ha la benché minima importanza ai fini del film: poteva pure essere eschimese! – rimane la storia del buono che studia per diventare buonissimo ma si perde per strada e comincia a diventare prima buonino poi cattivo, tentato dal cattivissimo. Il super-buonissimo gli ricorda la strada giusta e il buono si ricorda d’un tratto di essere buono e diventa buonissimo con estrema facilità: come mai non c’era riuscito sin da prima?

In “Man of Tai Chi” sono banali e scontati anche i combattimenti: il maestro Woo-ping cerca di inserire prese da mixed martial arts nelle sue coreografie, ma si vede che ormai non sa più che cacchio inventarsi. E quarant’anni di carriera sulle spalle sono tanti…
Taccio pietosamente sulla prova attoriale di Reeves nel ruolo di cattivissimo: era più che convincente nel fare il cattivo nel “Molto rumore per nulla” di Branagh, ma erano davvero altri tempi. Nel ripetere puntigliosamente frasi come «Fight!» e «Finish Him!» sembra più che altro la parodia di Mortal Kombat

Insomma, ’sto film una visione la merita di sicuro, se proprio non avete altri progetti per la serata, giusto per vedere “che c’è di nuovo”, ma siamo davvero lontani da una produzione vagamente soddisfacente.

Share on Tumblr Share
Posted in Cinema marziale | Tagged , | 3 Comments

Colpi da maestro

Share on Tumblr Share

Finalmente in DVD italiano questo piccolo gustoso film: “Colpi da maestro” (2012), ma rende decisamente meglio il titolo originale Here Comes the Boom, dal titolo della celeberrima (e trascinante) canzone dei P.O.D. Un film leggero ma che dimostra che a metterci cuore si può girare una pellicola sulle mma (mixed martial arts) senza scadere in luoghi comuni.

Scott Voss (Kevin James) è uno svogliato maestro di scuola che sembra stimare una sola persona al mondo: il suo collega Marty Streb (Henry Winkler), maestro di musica. Quando il programma di musica viene cancellato per mancanza di fondi, Voss decide di provare un’idea pazza: entrare nel circuito delle mma, dove agli alti livelli anche se perdi becchi un sacco di soldi. Con l’aiuto dell’amico Niko (il montagnoso Bas Rutten), Voss comincia a prendere sberle e sganassoni ma anche ad imparare qualcosa, anche al di là delle mma.

Una storia di redenzione e di catarsi, niente di nuovo, ma il tutto girato con gusto e con la giusta dose di umorismo e sentimento. Insomma, un filmetto giusto per 100 minuti ben spesi.
Ovviamente la parte più ghiotta è la parata di vere star delle mixed martial arts che sfilano davanti alla cinepresa, a partire dal campione mondiale Bas Rutten che qui si diverte un mondo a giocare con il proprio personaggio autoparodistico. Dal presentatore sportivo Joe Rogan (apprezzato lottatore di brazilian ju jitsu), al fondatore della Sityodtong Muay Thai Mark DellaGrotte, e tante altre comparsate dai lati opposti del ring.

Da non sottovalutare la parte musicale. (Here Comes the) Boom dei P.O.D. è un brano trascinante, anche quando Winkler la rifà per voce e chitarra!!!
Nel ruolo di una studentessa c’è la promettente Charice, piccola filippina dalla voce sorprendente che ha spopolato nel telefilm Glee. (Malgrado i suoi vent’anni suonati continua a sembrare una ragazzina!)

Chiudo con il simpatico trailer: https://www.youtube.com/watch?v=M4L6ruTF5qE

Share on Tumblr Share
Posted in MMA | Leave a comment

Dojo Fights

Share on Tumblr Share

Nel 1972 il mondo assistette ad una delle scene più celebri del cinema (marziale e non): l’arrivo di un colleroso e determinato Chen nel dojo degli odiati giapponesi per far rimangiar loro (nel vero senso della parola) l’offesa lanciata durante i funerali del suo maestro. (Sulle circostanze della cui morte indaga il film Fearless.)
Erano i primissimi anni del gongfupian, quando cioè ad Hong Kong si erano resi conto che c’erano dei film senza costumi medievali e spade luccicanti che lo stesso infiammavano il pubblico e facevano incassi da capogiro: la gente che si menava a mani nude piaceva, e un cinese solo che prendeva a calci uno stuolo di odiati giapponesi era un orgasmo per il pubblico di Hong Kong.
In USA (e nella sua provincia italiana) tutt’oggi si ignora la differenza fra cinesi e giapponesi, quindi quella scena è priva dell’immenso valore ideologico che tutta l’Asia seppe cogliere.

Subito dopo il film con Bruce Lee, fiorirono molti remake più o meno dichiarati: ad Hong Kong il gusto per la citazione è imprescindibile, così all’epoca era facile trovare un film, anche non marziale, che vedesse al suo interno una scena di dojo fight. Ce ne sarebbero molte da proporre ma per ora ho scelto di presentarne quattro.

Nel videoclip che linko più sotto sono presentate mixate quattro sequenze fortemente collegate le une con le altre.
Si inizia ovviamente da “Dalla Cina con furore” (Jing wu men / Fist of Fury, 1972), e il collegamento va subito al successivo “Fist of Legend” (Jing wu ying xiong, 1994), uno dei vari remake della storia di Chen impreziosito dalla presenza di un giovane e gagliardo Jet Li.
Subito dopo troviamo “Legge marziale” (Best of the Best 4, 1998), quarto ed ultimo sequel del film “I migliori” di cui si è già parlato in questo blog. Se confrontata con le due precedenti, la scena con Phillip Rhee può sembrare molto diversa: è un dojo per modo di dire, non sono neanche giapponesi e soprattutto usano armi invcece che le mani nude. Ma l’ho inserita apposta perché la stessa identica scena – mutatis mutandis – viene riproposta qualche anno dopo in “Kiss of the Dragon” (K.O.D., 2001).
Sebbene tutti (me compreso) abbiamo gridato alla citazione “alta” da Lee, guardando le due scene è impossibile non notare una fortissima somiglianza. Probabilmente non è voluta, ma certo che la scena di Jet Li assomiglia molto più a quella di Rhee che a quella di Lee.
Una curiosità. Se aguzzate la vista, in una sequenza che ho inserito di “Dalla Cina con furore” vedrete un giovane Corey Yuen vestito da giapponese che, preso un calcio in faccia da Lee, va a sbattere su una colonna: lo stesso Yuen è il coreografo dei combattimenti di “Kiss of the Dragon”, quindi ha creato la scena che omaggia la sequenza che lo vide protagonista trent’anni prima! 😉

Non mi resta che segnalare il link del video: https://vimeo.com/44144529
Fatemi sapere che ne pensate 😉

Share on Tumblr Share
Posted in Cinema marziale | 4 Comments

Dragon Eyes

Share on Tumblr Share

Da un mese nel circuito home video internazionale “Dragon Eyes” (2012), film che segna il debutto da protagonista di un vero campione del ring passato al cinema: il vietnamita Cung Le. Come buona usanza americana, all’attore originario di Saigon viene fatto interpretare Hong, un cinese… ma un Atlante ’sti americani non lo guardano mai?
Una storia di mafie etniche, di ricatti e di piani intricati alla Piombo e sangue, il tutto confezionato in modo grezzo e approssimativo da John Hyams, figlio del celebre Peter, che già ha firmato quella roba immonda di Universal Soldier Regeneration. (E che, non pago, ha finito di girare l’ennesimo “Universal Soldier”…)
Il film è un lancio – forse un po’ pencolante, ma sempre un lancio. Quello di un grande campione del ring che si butta via sullo schermo…

Durante il suo periodo in cella, Hong viene allenato da un maestro d’eccezione: un sorprendente Jean-Claude Van Damme!
A 52 anni il buon J.C. dimostra di avere ancora un fisico invidiabile e un’agilità incredibile, ma riguardo al “viso da cinema” ancora non ci siamo. Però il suo ruolo alla fin fine è apprezzabile, di sicuro meglio di quello di Cung Le. Il campione viene imbolzito e appesantito e alla fine risulta molto più legnoso dello spettacolo che per anni ha dato sul ring. Non mi resta che consigliarvi un giro su YouTube per ammirarlo in azione. (Come per esempio in questo video: http://www.youtube.com/watch?v=UOXnQ11JFJA)

Dragon Eyes” è un piccolo film grezzo che una visione comunque la merita. Cung Le nella doppia veste di protagonista e coreografo dei combattimenti non convince abbastanza: fa la parte di un caratterista promosso ad attore, non di un campione che decide di salire (o scendere, dipende dai punti di vista) sullo schermo. Speriamo di cuore di vederlo in futuro impegnato in qualcosa di più confacente alla sua bravura.

Ecco, per finire, il trailer: http://www.youtube.com/watch?v=qhQxTaICiQw

Share on Tumblr Share
Posted in Cinema marziale, Jean-Claude Van Damme, MMA | Leave a comment

The Raid

Share on Tumblr Share

Troppe volte ho parlato di “capolavoro”, quindi ora non so come definire “The Raid” (Serbuan maut, 2011) di Gareth Evans: “il più grande film d’azione della storia del cinema” rende ugualmente?
Niente di ciò che avete visto nella vostra vita può prepararvi all’overdose di azione di altissima qualità proveniente dall’Indonesia, e in particolare dai craetori dell’ottimo “Merantau” (di cui ho già parlato tempo fa).

Un palazzo di Jakarta è la sede di un boss spietato e quasi mitico, circondato da decine di criminali al suo ordine. Un gruppo di poliziotti fa irruzione… e il massacro può cominciare!
Un intero film di close combat, tutto in interni strettissimi, con attori e stuntman di una bravura spaventosa, con scene da rimanere senza fiato e con scontri marziali di una durezza che fa male anche solo a guardarla.
Storia di fratelli di sangue e fratelli biologici, di amicizia e tradimento, di giustizia e vendetta. C’è tutto, e tutto cucinato alla perfezione: sembra un romanzo di Stephen Gunn portato su schermo! (Lame comprese 😉

Il regista gallese Gareth Evans torna a dirigere il campione nazionale di forme di silat Iko Uwais e soprattutto a farlo scontrare con il grande giavanese maestro di silat Yayan Ruhian. Tutti e tre i nomi li abbiamo visti all’opera nel citato “Merantau”, ma qui con una qualità infinitamente superiore.
È davvero difficile descrivere l’enorme quantità di scene d’azione e combattimenti di questo film, la durezza degli scontri al tonfa e alla lama, la stupenda e spaventosa bellezza del close combat in salsa silat… faccio prima a invitarvi a vedere il trailer “banda rossa”: http://www.youtube.com/watch?v=CMmFN4k04JI

La morale è semplice: fate quello che volete ma VEDETEVI questo capolavoro, e dimenticate quelle quattro monachelle di “action heroes” americani 😛

Share on Tumblr Share
Posted in Cinema marziale | 4 Comments