Intervista di Luca Crovi su “La gabbia criminale”

Di seguito l’intervista che mi ha fatto Luca Crovi di “Tutti i colori del giallo”. La trovate qui.

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Alessandro Bastasi ci presenta il suo “La gabbia criminale” (Eclissi Editrice).

Com’è nato il romanzo?

Il romanzo è nato da un racconto che avevo scritto un po’ di anni fa, “Il muretto”, con i dialoghi in dialetto, dove rivisitavo affettuosamente i luoghi della mia infanzia, e cercavo di creare un acquarello di figure che, filtrate dal tempo, ogni tanto comparivano nella mia mente, delle quali mi chiedevo “Chissà dove sono adesso, che cosa sono, cosa stanno vivendo”?

Il rapporto con il mio territorio d’origine però col tempo e con il trionfo di quella Lega che ha in Gentilini il suo astro si è deteriorato, si è trasformato in amore-odio, e anche le figure del racconto nella mia mente si sono trasfigurate, diventando rappresentazioni emblematiche di un DNA profondo, viscerale, che dagli anni ’50 in poi, nonostante tutte le profonde trasformazioni subite, è arrivato praticamente intatto fino a oggi: quel familismo amorale, ipocrita e conformista causa prima di quel localismo chiuso in se stesso che trova nella Lega la sua epifania. E ho deciso di scrivere un noir “paesano”, in cui spicchi questo aspetto sopra ogni altro. Dove un duplice delitto compiuto nel ’53 è il pretesto per approfondire il contesto in cui questo è potuto accadere.

Perchè un titolo così emblematico?

Per i motivi che dicevo prima: la gabbia criminale è la famiglia intesa come microcosmo chiuso e fine a se stesso, “valore” assoluto al quale è possibile, anzi, doveroso sacrificare qualunque altro valore etico e sociale, per il quale ogni schifezza è giustificabile, purché, appunto, l’onore della famiglia sia salvo. E questo, come veneto d’origine e comunque legato a quella terra (anche se vivo a Milano da tanti anni) mi fa star male. Enrico Pandiani dopo aver letto il libro mi ha scritto: “Hai fatto uno spaccato impietoso delle tue parti ma si percepisce potentemente il desiderio che tutto fosse diverso.”

E’ stato facile mediare passato e presente nella narrazione?

In tutta la prima parte i piani temporali (anni ’50 e tempo presente) si sovrappongono e si confondono, perché l’io narrante, tornando a vivere nella casa in cui aveva passato i primi nove anni della sua vita, rivive immagini, figure, eventi di un’epoca lontana, e questo gli succede inaspettatamente, un odore, un suono, l’atmosfera inquietante della casa gli aprono improvvisamente una breccia nel profondo del suo io (la casa, in molta letteratura psicanalitica, rappresenta appunto l’io). In realtà tutta la prima parte del libro, in questo senso, avviene nella sua mente, dove il tempo non esiste. Con questi riferimenti, mediare tra passato e presente è stato relativamente semplice, forse all’inizio il lettore è un po’ sconcertato, ma poi si abitua subito.

Quali erano i fatti storici sui quali volevi che  si concentrasse maggiormente l’attenzione dei lettori?

Più che i fatti in se stessi, il mio intento era disegnare nel modo più efficace possibile (e il plot del noir ben si presta a questo obiettivo) un ambiente, in cui certo i fatti storici (il fascismo, i partigiani, la ricostruzione post-bellica, l’odio per i comunisti, ecc.) hanno la loro importanza, sono però visti sempre in relazione allo zoccolo duro di cui parlavo: una società che un tempo era succuba dei preti e dei padroni, dove si guardava alla propria sopravvivenza e ad accrescere se possibile il proprio benessere singolarmente, a scapito di qualunque interesse generale. Poi, certo, la storia entra nel romanzo, ma finalizzata soprattutto allo sviluppo delle vicende narrate e a far da riferimento alle motivazioni di certi comportamenti.

Quanto è cambiata nel tempo Treviso?

Esteriormente è cambiata tantissimo, le amministrazioni degli ultimi dieci anni hanno fatto tantissimo per renderla bella, linda, pulita, anche grazie al famoso miracolo del nord-est di cui tanto si è parlato. Ma ho la netta sensazione che la sua anima profonda non sia cambiata, l’individualismo localistico e il disinteresse per un bene comune più generale, il familismo, il rifiuto del diverso non mi sembra che si siano attenuati in questi cinquant’anni, anzi! E sarà proprio “il rifiuto del diverso”, in questo caso il migrante, il tema centrale del mio prossimo romanzo, che avrà la medesima ambientazione.

Quanto trovi che il tuo sia un romanzo corale?

L’intenzione era di scrivere un romanzo molto corale, aiutato in questo dalla commistione tra passato e presente, dove molti personaggi compaiono, alcuni nel tempo di una pennellata, o di un respiro, per poi scomparire o quasi (il maestro Ferrara, le comari del borgo,…). Dal contesto spiccano, ovviamente, i personaggi chiave. Qualcuno ha scritto che “Bastasi in alcuni momenti sembra che più che scrivere dipinga un quadro impressionista con tutti i suoi minimi particolari”. La visione sociale di cui ho parlato prima, più che da una mera descrizione, dovrebbe risaltare appunto da un quadro del genere.

Quali sono i personaggi della storia ai quali ti senti maggiormente vicino?

In generale ai personaggi femminili, vere vittime di quell’ambiente. In particolare A Eva, a Caterina la matta e a Maria la Longa. A Eva perché è l’unico personaggio che si ribella al contesto conformista in cui è costretta a vivere. A Caterina perché vittima innocente della violenza nascosta e dell’ipocrisia che la circonda. A Maria la Longa perché è la “strega” della situazione, personaggio inquietante ma profondamente umano. E poi, ai giorni nostri, c’è Valentina, la figlia di Eva, protagonista di una tenera storia d’amore che dà un barlume di speranza a tutto il racconto…

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INCUBI

“Maria la Longa era lì, nella stanza, grande fino al soffitto, a fissarmi severa, e poi a due centimetri dalla mia faccia, nera come la peste, ad alitarmi addosso, a sibilarmi frasi che non capisco, a prendermi la testa tra le mani, a stringermela con forza fin quasi a spaccarmela, mentre i suoi occhi di fuoco mi scaricano addosso il fardello di rancore che quella casa ha in tanti anni accumulato.
Sono stanco, ho bisogno di Valentina. Non ce la faccio più a stare qui.
Nelle orecchie continua a ronzarmi la voce di Maria la Longa, e le uniche parole che mi sembra di riconoscere sono: «Il fuoco… Tu devi…»
Che cosa devo, Dio santo, che cosa, di quale fuoco stai parlando?”

da: La gabbia criminale

http://www.eclissieditrice.com/libri-alessandro-bastasi-la-gabbia-criminale-32.html

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Commenti a “La gabbia criminale” nelle pagine aNobiiane

Un commento a “La gabbia criminale” nelle pagine aNobiiane
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Reo confesso, il sottoscritto ha buttato il naso tra queste pagine così per una annoiata forma di curiosità, perchè la faccia che le aveva scritte è simpatica, perchè butto sempre un occhio alle uscite della mia editrice, per tenere d’occhio la concorrenza, e… FOLGORATO!
Bastasi è un fine costruttore di psicologie e caratteri, un abile intessitore di trame (anche se, e ne parleremo spero, il colpevole l’avrei mosso diversamente), e porta in primo luogo la storia tra le pagine di un romanzo giallo classico ben scritto (indicativo presente in un’alternanza di ricordi sogni e azioni) e architettato, ma soprattutto offre un CONCETTO. E’ qui la straordinaria abilità di Bastasi: ti infiocina a pagina 4 o 5, e ti tira a bordo fino a divorare le ultime righe e spiegarti cosa sia quella Gabbia Criminale, e farti riflettere se per caso non ne sia prigioniero anche tu che leggi.
A un giallo buono, si aggiungano un romanzo bello ed elegante e una scrittura ottima, e significativa oltre che significante, questo è quanto. Che in un libro è tutto.

ps sa di teatro, questo libro. A teatro?

Francesco Gallone scritto il Jan 12, 2011

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Referendum Mirafiori, lavoro, sinistra

Il referendum che si sta svolgendo in queste ore alla Fiat è infame.

E’ infame per tutti i motivi che sono già stati detti. Ma è infame anche perché si addossa a un gruppo di lavoratori la responsabilità di avvallare l’abrogazione dell’articolo 1 della Costituzione, quello che afferma che l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro. Il senso di questo articolo, che informa di sé tutta la prima parte della nostra Carta fondamentale, è che il lavoro non è solo una merce da offrire in cambio di un salario, ma strumento collettivo partecipazione, icona per eccellenza di appartenenza a una cittadinanza, a un corpo sociale, che collettivamente si rapporta all’altro elemento della diade capitale-lavoro, in un equilibrio dinamico riconosciuto e rispettato. E’ il massimo che si poteva ottenere in una società basata comunque su rapporti di produzione capitalisti, quanto basta comunque per far dire a qualche idiota che l’impianto della nostra Costituzione è di tipo “sovietico”.

C’era tutto un progetto, in quell’articolo, che ora sta per essere spazzato via. D’ora in poi ogni posto di lavoro farà storia a sé, individualmente, senza contratti collettivi che incarnino in qualche modo lo spirito del lavoro come affare di tutti e non tanto del singolo lavoratore, che rimarrà solo di fronte al capitale.

Anche per questo il referendum in questione è infame. Non soltanto perché i lavoratori devono rispondere sotto ricatto, pena la perdita di un salario e di un futuro quale che sia, ma anche perché costringe i lavoratori stessi a riconoscere lo stato di fatto, di un mercato che sostituisce brutalmente, annichilendola, la portata del lavoro, pietra miliare della democrazia così come l’hanno voluta i padri costituenti. Non più classe, non più corpo sociale determinante, il lavoratore d’ora in poi non parteciperà più, dovrà solo subire e chinare la testa di fronte alle esigenze del “mercato”, sempre più libero dalle “pastoie sovietiche” della nostra Costituzione, sempre più libero di disporre delle vite dei cittadini come meglio gli conviene.

Tutto ciò avviene di fronte a una pseudo-sinistra inerme, ormai culturalmente incapace di qualsiasi progetto alternativo, succuba di ogni “ineluttabilità” dell’esistente, in una corsa verso il nulla che accomuna “vecchi” alla Fassino e “giovani” alla Renzi, e che offre la prova della sua inconsistenza nei balbettamenti senza costrutto di Pierluigi Bersani. Perché nasca una sinistra in Italia, con un progetto politico e culturale riconoscibile e autonomo, che non scopiazzi malamente il pensiero dominante e che voglia invece invertire i processi in atto di atomizzazione della società, è necessario che un partito come il PD sparisca. Per far posto a un movimento politico che parta – ad esempio – dalla FIOM, dai precari, dagli immigrati, dai nuovi poveri, dai cassintegrati, dagli studenti e dai giovani senza futuro. In Italia, in Francia, in Grecia, ovunque un barlume di coscienza sociale faccia sentire la sua voce. Si dice che il ceto medio sta scomparendo? Bene. Prendiamone atto. E agiamo di conseguenza. Collettivamente.

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Pater, ave e gloria… ma che non si azzardi a tornare!

Mi viene da pensare, in questi giorni natalizi, a Gesù Cristo. Un uomo che condannava la ricchezza fine a se stessa, che dispensava gratis (gratis!) cibo alle folle, che diceva ai pescatori di mollare il loro lavoro, la loro famiglia per seguire la via della verità, evidentemente prioritaria rispetto a ogni altra scelta. “Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita? E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro.” E poi Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa.” Un ribelle nei confronti dell’autorità costituita, uno che portava scandalo tra i ben pensanti.

E allora, per contrasto, penso ai ricchi Epuloni di oggi, che dall’alto della loro ricchezza, degli abiti firmati Caraceni, delle loro roboanti mitologie (il lavoro più redditizio, la famiglia più invidiabile, il benessere individuale come obiettivo massimo a scapito di ogni bene comune), dall’alto dei loro comportamenti mondanamente sconci, del loro profondo egoismo, hanno il coraggio di dichiararsi cristiani e difensori della fede, e di indignarsi se ad esempio l’Europa, nella sua Costituzione, non inserisce il riconoscimento delle radici cristiane.

Ci vorrebbe davvero un Dostoevskij che scrivesse una “Leggenda del grande inquisitore” riveduta e aggiornata ai giorni nostri. Ma pochi lo leggerebbero, intenti come sono, i più, a seguire l’Epulone di turno, ad ammirarne le gesta con gli occhi sbarrati, a strappare a forza dagli artigli dei loro vicini le briciole che cadono dalla mensa. Dopo, beninteso, un Pater, Ave e Gloria.

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Preghiera a Gesù Bambino

Caro Gesù Bambino, quest’anno sono stato buono, quindi ti chiedo un regalo per te facile facile: va’ allo IOR e pronuncia quella frase che mi è sempre piaciuta, con il vocione che sai fare tu quando ti incazzi: “Avete fatto della mia casa una spelonca di ladri!”, ti ricordi? L’hai detta 2000 anni fa e se ne parla ancora, anche se poi nessuno dei tuoi ti ha mai preso sul serio…

Ah, Gesù Bambino, dimenticavo, ti chiedo un altro regalo. Puoi far sparire dalla circolazione Gasparri, La Russa, Bondi, Casini, Veltroni…? Come vedi sono bipartizan. Sai, ho una nipotina piccola di cinque mesi, e mi piacerebbe che vivesse in un paese senza questa gente qui, ché altrimenti me la inquinano fin dalla tenera età… Eh? Che dici? Devi parlarne con Bertone? uh, scusa, come non detto, vorrà dire che farò da me, grazie lo stesso. Poi però non dire che non ti avevo avvertito.

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MBAYE E LE CRICCHE, I LADRI DI STATO, I LENONI DI REGIME

Mbaye è un senegalese alto, magro, dallo sguardo dolce e triste. Lo incontro il sabato mattina, nella mia zona giorno di mercato, cerca di vendere “Terre di mezzo” per raggranellare qualche euro, tra l’indifferenza dei passanti che lo sfiorano frettolosi con il carrello pieno di frutta e di verdura. E’ senza permesso di soggiorno e vive nel terrore di essere preso e buttato in un CIE, per poi essere espulso. In Senegal ha una moglie e tre figli, cui riesce, nonostante tutto, a mandare ogni mese qualche soldo. Non mi ha mai voluto dire dove dorme, quando glielo chiedo tergiversa, forse teme che mi scappi detto con qualcuno che non lo deve sapere. O forse si vergogna, non l’ho ancora capito.

Mi ricordo un giorno dello scorso maggio. Era sera, pioveva fitto, ero dalle parti di Bonola, fermo a un incrocio, e mentre aspettavo che il semaforo diventasse verde dallo specchietto retrovisore l’ho visto arrivare lentamente. Mi ha superato, ha attraversato anche se era rosso, grondante di pioggia nel suo giaccone scuro di cotone spesso, con uno zaino pesante sulle spalle. L’ho poi raggiunto, volevo dargli un passaggio, ma non dimenticherò mai i suoi occhi terrorizzati quando ha visto la macchina che si fermava accanto a lui. “Mbaye, sono io, Alessandro!”, gli ho detto. Mi ha guardato e si è tranquillizzato. Era a disagio. “Avevo paura che fosse la polizia”, ha sussurrato cercando di sorridere. Ma non è voluto salire, ha detto che era quasi arrivato, andava da un suo amico…

La sicurezza! Che vengano qui, a parlare con Mbaye, gli alfieri della sicurezza, a vedere la sua faccia da “criminale”, la faccia di chi vive nell’ansia di non avere di che vivere, di essere scoperto e ricacciato indietro, di morire in un lager nel deserto o finire ammazzato al suo ritorno nella cosiddetta patria. Mbaye è un “pericoloso” pregiudicato, certo, la clandestinità è un reato!  Non importa che non faccia assolutamente niente di male, che abbia solo paura, può essere preso e portato via, da un momento all’altro, in mezzo a una folla che grida “negro, tornatene al tuo paese”. Per tanti, per troppi Mbaye non esiste, e se esiste è un fastidio, un bubbone da estirpare, o una macchina da sfruttare per poi rottamarla e buttarla nel cesso.

In compenso noi ci teniamo certe facce abbronzate che anche davanti a una telecamera ti dicono ridendo che quello yacht ormeggiato a riva gli è costato un milione di euro, poi vai a vedere la loro denuncia dei redditi e scopri che dichiarano sedicimila euro l’anno. Lo sanno tutti, ma quelli non li va a prendere nessuno, non li mettono su un aereo e non li mandano in un lager libico. A noi piace tenerci le cricche, i ladri di stato, i lenoni e le puttane di regime. “Loro sì che sanno come va il mondo. Gente in gamba, capace di metterglielo nel culo a tutti.” Gente da ammirare. E avanti con l’isola dei famosi. Che magari è il luogo, uno dei luoghi, da cui provengono i vari Mbaye che scansiamo infastiditi per la strada. Anche lì, a casa loro, andiamo a rompergli i coglioni!

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Berlusconi non sa l’italiano

Mi diceva un amico qualche sera fa: “Berlusconi non sa l’italiano, l’ha imparato come si impara una lingua straniera, ma non riesce a pensare in italiano, e per di più le poche parole che conosce sono specifiche del codice di comunicazione pubblicitario”. E’ vero. Berlusconi non possiede i termini necessari per elaborare e articolare un concetto di cultura politica, e quando cerca di usarli si intuisce che li echeggia senza comprenderne il valore semantico. Ascoltatelo bene mentre parla di questioni istituzionali, quando “commenta” ad esempio la Costituzione. Non è il suo terreno, gli sfugge il senso profondo dell’argomento, lo ha orecchiato a modo suo, secondo i suoi sistemi di riferimento, riassumibili nel “ghe pensi mi”. Il suo eloquio è il perfetto simbolo del degrado del paese.

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CORPI FREDDI: LA RECENSIONE DE “LA GABBIA CRIMINALE”

L’uomo è li, fermo, immobile, con il cappotto grigio scuro e il cappello in testa, in piedi. E’come se nel cervello gli volassero sciami di mosche, un ronzio dentro la testa non gli permette di vedere, di capire cosa sia successo. Lo sa che deve andare via, di corsa, questo lo percepisce, ma non ci riesce. Lo sguardo percorre la cucina, la stanza in cui si trova adesso, come se volesse convincersi che tutto è in ordine, che tutto procede normalmente: il tavolo di legno con le quattro sedie, la credenza con il pane, il santino di papa Pio XII sul muro, il crocifisso sopra la posta con rametto d’ulivo, la cucina econominca con il fuoco acceso, l’acqua che bolle nella grossa pentola, la boule sul tavolo pronta per essere riempita, per scaldare le ossa dei due vecchi che a quell’ora dovrebbero essere già a letto. Ma non c’è nessuno che la riempia, perchè non c’è più nessuno da scaldare.

Dicembre 1953 un duplice efferato omicidio sconvolge la quiete della provincia trevigiana. Saverio Dotto e sua moglie vengono uccisi a coltellate. In un luogo in cui i fatti di sangue sono un eccezione, l’interesse diventa morboso, se ne parla, si creano leggende che vengono tramandate e arricchite con gli anni. Dopo quasi 50 anni Alberto Sartini torna nel suo paese natio, l’ha lasciato da giovane si è laureto ed è diventato insegnante all’università di Brescia. Raramente ci ha rimesso piede, ma ora è in pensione, è separato da sua moglie, i figli sono grandi e indipendenti e decide di tornare a vivere in quella che era la casa dei suoi genitori. Il padre è morto molti anni prima , la madre novantenne vive con la sorella. Sono passati 50 anni, dicevo, e ancora si parla di quel fatto di sangue. E’ Gigi l’amico ritrovato dei vecchi tempi che tira fuori lo scheletro dall’armadio, Carlo Bettini, l’uomo che è stato accusato dell’omicidio, e che è morto in carcere, è innocente. Secondo Gigi si è solo trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato; è vero il movente ci poteva essere, magari politico, magari la vendetta visto che le chicchiere di paese, veri e propri tornadi in realtà, lasciavano intendere che il Dotto avesse violentato e ucciso la moglie, ma secondo lui è stato qualcun altro ad ammazzare quel vecchio che detestavano tutti. Alberto si fa prendere da questa storia, lui era piccolo ricorda vagamente i fatti ma sente che c’è qualcosa che lo incuriosce, che lo spinge a cercare di capire cosa sia veramente successo, e la sua ricerca ossessiva lo porterà a scoprire quanto marciume c’era sotto quella facciata di perbenismo, quante falsità, pettegolezzi e rancori “il familismo amorale che vi divora, che fa scomparire solidarietà, legami sociali, senso comune, questa gabbia criminale dalla quale sono scappato appena ho potuto. Questo intreccio di falsità contrabbandato per decoro, buon nome, reputazione, questo cazzo di legame del sangue in nome del quale si possono compiere le azioni più vigliacche”…. E lo porterà a scoprire la verità.
La gabbia criminale non è un giallo almeno non nel senso classico che intendiamo noi: omicidio, indagini, scientifica sparatorie e arresto del colpevole. E’ vero ci sono due omicidi ma servono ad Alessandro Bastasi per farci guidare per mano da Alberto all’interno della vita di questo borgo di provincia, uno di quei paesi in cui, le persone sanno tutti di tutti, si gode se qualcuno sta peggio di te, si chiacchiera e si spettegola incuranti del male che si può fare e delle vite che si posso rovinare. Si nascondono i fattacci perchè i panni sporchi si lavano in famiglia e si cammina sempre a testa alta con sicurezza, non sia mai qualcuno possa mettere in dubbio levatura e principi morali. Alberto ci porta avanti e indietro nella sua vita con repentini sbalzi temporali, passando dalla prima alla terza persona continuamente e se questo all’inizio può confondere, credetemi dopo poche pagine diventa coinvolgente. Scritto in maniera scorrevole e semplice questo libro si lascia leggere tutto d’un fiato, diventiamo curiosi, vogliamo sapere cosa ne è stato dei vicini di casa, degli amici, della moglie di Carlo Bettini dei suoi figli, se è vero che Carlo ha ammazzato il Dotto. La sensazione forte che ho avuto leggendo questo libro è stata quella di trovarmi di fronte ad Alberto e pendere dalle sue labbra, sentire il racconto della sua vita, inorridire in alcuni passaggi, sorridere in altri, proprio come si fa con le persone anziane, si sta li buoni e zitti e si ascolta, senza interrompere mai.

Articolo di Cristina “cristing” Di Bonaventura

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Le nuvole, io so cosa sono le nuvole

“Una persona è stata arrestata. Una forza più grande di lei, che ha armi e manette d’acciaio, l’ha presa, l’ha portata via dalla sua casa, l’ha messa in un luogo sconosciuto.”

La mia libertà.

Una parola che suona come una musica che ti fora i timpani,

come un motore spinto oltre un divieto,

come una sbronza che ti circonda di amici sconosciuti,

come un insulto rabbioso,

come una dose di euforia.

Come una porta sbattuta per ferire.

Come una corsa verso il nulla.

Una corsa che mi ha rinchiusa dentro pareti troppo ferme per sentirle respirare.

Una vita cambiata per sempre, un’esperienza che ricorderò come una nuvola grigia, che può scorrere fuori dalla tua vista, ma sai che rimane nel tuo cielo.

Il tuo cielo, che non sarà mai più quello di prima, quello dell’innocenza, delle possibilità.

Ma io ora vivo, non sopravvivo.

La libertà fa la differenza.

Le nuvole, io so cosa sono le nuvole.

Per la rassegna SABATOGIALLO “Oltre” , sabato 20 novembre alle ore 21:00, al teatro Santuccio di Varese (via Sacco, 10), andrà in scena:

VIRGINIA atto unico teatrale
di Maria Dolores Fusetti, Giuseppe Battarino, Luciano Sartirana
Regia Luciano Sartirana
Musiche eseguite in scena da The Oder Side

Interpreti: Alessandra Fiori, Maria Francesca Guardamagna, Alessandro Bastasi

L’evento sarà visibile anche dal canale streamming:
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